Vettenuvole

Reali fantasie di nuvole, montagne e altre amenità

Cronache del Wapta

Cold nights in Canada and icy blue winds, the man and the mountains are brothers again.
Clear waters are laughing, they sing to the skies. The Rockies are living, they never will die.

Wapta Traverse

Sì, se l’Inca di Negrini mi ha ispirato l’interesse per il Perù, sono state le note di John Denver a farmi sognare le Montagne Rocciose. Quelle montagne già sognate in estate, e poi sfumate ancora prima che l’idea prendesse forma. A volte il destino segue strade tortuose, ed il senso si rivela alla fine, limpido e perfetto, che non avresti desiderato di meglio.

Il Wapta Traverse, tra il British Columbia e l’Alberta, nelle Montagne Rocciose, non è un cammino difficile. Ma è lungo e faticoso, da fare con uno zaino sulle spalle contenente l’autonomia per almeno cinque giorni, tra montagne dove gli spazi sono sterminati ed è facile perdersi se la visibilità scarseggia. Cosa che qui accade sovente, come vedremo. Anzi, come non vedremo.

Stiamo parlando di un cammino con gli sci, tra laghi glaciali che non finiscono mai, morene ripide e caotiche, sterminati e ampi valloni. Qui raggiungere la cima è un interesse secondario – beh anche sulle Alpi quando fa brutto. Conta andare, guardare e farsi attraversare dai luoghi che si passano.

Il Wapta Traverse, tra il British Columbia e l’Alberta, nelle Montagne Rocciose, è un sogno che sa di selvatico, un’avventura per riscoprire sensazioni più istintive e primordiali che sulle nostre Alpi l’antropizzazione renderebbe impossibile.

Giorni zero

A Calgary arriviamo con la pioggia. Si va in auto verso le montagne. La stanza del Lodge è già una montagna. Di confusione. Bisogna preparare gli zaini. A Lake Louise c’è una stazione dove passano treni lunghissimi. Centinaia e centinaia di metri. Avrà anche ragione De Gregori che per essere davvero liberi non occorre la ferrovia, ma sai che fascino quei treni, e che misteri si portano via?

Primo giorno

Partiamo dal parcheggio lungo la statale 93, proveniente da Lake Louise. Sì, ma quale parcheggio? Tastiamo la neve, guardiamo la carta…niente. Non convince. Torniamo in auto in cerca del parcheggio, quello giusto. Siamo partiti così: senza riuscire a partire. Ma sì, insomma, va bene – mi dico. In fondo anche Jack Kerouac nel suo viaggio coast to coast al primo tentativo riuscì malapena ad uscire dalla periferia di New York, per tornarsene indietro tra mille difficoltà.

Dal parcheggio – quello giusto – una breve ravanata nella foresta, davvero scomoda, porta al Peyto Lake. Ecco, dopo la fatica per partire, subito una ravanata. Sbuchiamo in mezzo al lago ghiacciato e innevato. Lo si risale tutto. Poi si abbandona il Peyto creek per seguire una ripida morena che conduce ad una zona più ampia del vallone (stazione meteo). Non levo gli sci nel tratto più ripido, alcuni lo fanno. Oltre si  riaccede al vallone ora ampio e comodo che conduce alla Peyto Hut.

Ci arriviamo nella bufera, non si vede nulla e nevica forte. Davanti a me non vedo nulla. Di lato nemmeno, solo neve e bufera. Quasi non vedo i miei piedi, è tutto bianco e nebbioso. Dietro di me non vedo nulla… no. Vedo arrivare Simo, lei sorride meravigliosamente, è la visione più bella di questa giornata tipico-canadese.

Qui è così: comincia a nevicare un po’, poi più forte, poi esce anche il vento ed i fenomeni, abbandonata l’esitazione iniziale, si scatenano senza inibizioni. Nella notte verranno 40cm di neve, ma il bivacco è comodo e caldo. Accogliente. È un piacere tenero e avvolgente quello che si ha quando fuori il vento e la neve infuriano, ma dentro si sta bene. Buonanotte.

Secondo giorno

Abbiamo già ravanato nei boschi e nella bufera, ed è passato un giorno solo. E oggi?

Le cime più consigliate sono la Habel e la Rhondda, sui 3000m. Tutte avvolte nella nebbia. Sul lato opposto, se ne accorge Simone, splende al sole il Thompson. Saliamo quello, senza zaini, veloci. Poi una bella discesa in polvere leggera per quasi 500m di dislivello.

Attraversiamo il Bow Glacier e giunti sotto il St. Nicholas Peak una bella discesa di 200 o 300m porta alla Bow Hut. C’è un po’ di sole, ma continua a nevicare. Simo vuole a tutti i costi salire la Cima dell’Onion, una cipollotta priva di senso. Sottoscrivo l’interesse per le montagne cenerentole, ma ne ho basta del Thompson.

La Bow Hut è il bivacco più grande, ma anche più affollato, forse a causa della raggiungibilità in giornata dal Bow Lake di fondovalle. Forse perchè in posizione centrale per chissà quali incredibili mete.

Di sera, un signore canadese di una certa età ci mette in guardia sulla nostra traversata. Il Balfour high Col, punto chiave del viaggio, è una meta pericolosa causa nebbia e seracchi sospesi. Come passare il Corridor del Gran Combin, per intenderci. E in più quella nebbia perenne dove ci si perde. People die…  – ammonisce. Lui quel giro l’ha fatto e sa quali rischi si corrono. People die

Terzo giorno

Bene, oggi fa bello, tant’è che tornati sul Wapta Icefield saliamo il Mt. Gordon (3200m). Tra sole e neve ne raggiungiamo la cima, poi scendiamo gli ampi declivi con bellissime serpentine strette nella neve polverosa, fino agli zaini abbandonati sul piatto ghiacciaio. Meraviglia!

Tracciamo quindi una diagonale verso il colle San Nicholas Peak-Olive. Da qui Simone e Silvia salgono a piedi il San Nicholas. Io sono attratto da una sciatina sull’Olive, ma la cresta sembra ardita da fare sci in mano. Alla fine non combino nulla. Tant’è. Il fatto è che tra questi ampi scenari le vette sono un’attrazione marginale. Il senso del viaggio qui è più che mai viaggiare, attraversare.

La discesa verso la Balfour Hut è la migliore di tutto l’itinerario. Continua e su pendii sempre di minima inclinazione, per di più in un bel sole. Si passa sotto la parete del Mt Olive, davvero spettacolare. Per una volta il sole ravviva particolari e colori prima offuscati dalla persistente foschia.

La Balfour Hut si trova su un ripiano incantevole. Il Balfour High Col è sempre nella nebbia, ma non ci pensiamo ancora. Il tramonto reclama tutte le attenzioni. Indimenticabili i riflessi che la luce disegna quella sera sulle montagne innevate. Se esistesse un tempo che si può fermare, lo fermerei qui, in un istante perfetto.

Nella notte cadono valanghe – o sono i seracchi del Balfour? – ma io continuo a sentire i treni misteriosi di Lake Louise.

Quarto giorno

Sul tratto chiave della traversata è tutto nuvoloso già al mattino. Solita storia: nebbia, due fiocchi leggeri, poi gradualmente l’intensità cresce, si alza il vento e si scatena la bufera.

Con Simonetta avanzo con un po’ di urgenza per attraversare la zona pericolosa – ma lo sarà davvero? Poi ci riuniamo tutti e quattro per giungere al colle nella nebbia più totale. Ogni cosa è invisibile e mi trovo in difficoltà a muovermi nel nulla di bianco. Sciare poi è terribile anche se il pendio è banale, perdo l’equilibrio, mi sembra di cadere e mi metto a urlare. Un deficiente. Silvia che cura gli animali capisce e dice che è normale. Intanto Simone guida sulla traccia GPS che scende lentamente alla Scott Duncan Hut, l’ultimo bivacco.

La discesa è un lento scivagare nella nebbia totale, badando a minacciosi e per lo più inesistenti crepacci. Una ripellata ci porta al bivacco abbarbicato su un ripido pendio. Il vento è così forte che la neve entra dalle fessure della porta. Ma dentro si sta di nuovo comodi e la bufera si limita a fare scena come si vuole nei romanzi ambientati nel Grande Nord.

Quinto giorno

Giorno di passione. Ci aspettano 13,5Km per arrivare a valle e 1500m di dislivello in giù, ma non è tutta comoda discesa ed il percorso è abbastanza obbligato. Lo abbiamo visto dalla statale come sono fatte queste montagne: una lunga fascia rocciosa cinge la parte alta dove si svolge l’attraversata. Non ci sono vie di fuga, se non quelle che vanno seguite con accortezza.

Scesi dal promontorio del bivacco tocca già leggermente risalire. Forse in condizioni primaverili basterebbero un po’ di pattinate, ma qui è inverno, anche se ha smesso di nevicare resta nuvoloso e nebbioso. Il GPS è fondamentale.

Esito a ripellare, ma mi devo arrendere all’evidenza. Arriviamo sotto il Mt Niles. Io arranco, ho un momento (uno solo?) di stanchezza.

Voglio essere ricordato nella prossima era
come un glaciale geroglifico
come un bassorilievo
come un graffito inesplicabile perché del tutto inutile….
(I. Fossati  – Il battito)

Scendiamo nel mezzo del valloncello, forse troppo in mezzo. Bisogna stare più a destra, appiccicati al Niles. Risaliamo, facendo attenzione ad un possibile crepaccione che funge da trappola per topi sciistici. Scoviamo così un nuovo valloncello che dobbiamo seguire per arrivare al Sherbrooke Lake, nel fondovalle, tenendo la destra. La nebbia si dirada e comincia a fare caldo. Uno degli ennesimi improvvisi sbalzi termici. La neve fresca diventa pappona, una trappola per le gambe, una tortura pericolosa.

Con fatica entriamo nella quota degli alberi – la treeline. Tocca scendere al lago, ma il percorso negli alberi è ripidissimo e interrotto da salti rocciosi. Tant’è che solo dopo qualche ravanata troviamo la strada giusta, o meglio, una fattibile. Simone che è il più veloce e patentato prende tempo e scappa verso la statale, dove prenderà un taxi per recuperare l’auto, posta a decine di chilometri di distanza.

Arriviamo allo sterminato Sherbrooke Lake. Si ripella per la terza volta. Più volte perdo le pelli, restano appiccicate al lago. E il lago è incredibilmente lungo; giunti al termine, il sentiero sale leggermente alla sua sinistra. Un gran giramento di pelli!

Poi, finalmente, una specie di toboga ci porta al Great Divide Lodge, presso il Wapta Lake. È fatta. Scatto una foto che documenta un momento che è tutto dire.

Lo ammetto, i contrasti costruiscono il piacere. Come quando terminata una lunga arrampicata diventa un piacere potere solo camminare, ora è un piacere sedermi al Lodge e bere un tè. Simone mi riprende – «io tornerei là, invece».

Ha ragione, anche io stavo bene là, in mezzo al silenzio candido e puro della bufera, del sole scintillante e dei pendii sterminati. E oggi che scrivo li rimpiango e farò di tutto per ritrovare ancora quelle sensazioni.

I giorni dopo

Il giorno dopo facciamo un po’ di chilometri di defaticamento sulla strada che porta al Moraine Lake. Quasi una pista di fondo. Le ragazze si fanno gli alluci blu a forza di spingere con scarponi troppo rigidi – ma non ci è bastato il Wapta Traverse??

Si chiuderà in bellezza con un giro a Banff, la città del festival, dove ne approfitto per estorcere una foto con la traduttrice italiana dei film… sono venuto qui solo per questo!

Taccio sul Johnston Canyon, non merita. Se passate da queste parti, ignoratene l’esistenza.

È ora di tornare. A Calgary ci fermiamo in un negozio sportivo, una specie di Decathlon canadese. Mentre gironzolo tra i reparti, una voce nota mi sorprende alle spalle. Quella voce non posso dimenticarla, ma possibile che…

Italians survive, oh! – è sempre lui, a centinaia di chilometri, è lui. Mi raggiunge Simonetta e salutiamo il signore un po’ sorpresi. Dopo arrivano anche Simone e Silvia e spergiuro che ho visto il signore che… ma è già andato via. Lo abbiamo davvero visto o ce lo siamo solo immaginato?

E il Thompson e i bivacchi, la neve luccicante, l’aria fredda e pulita che ti fa sentire vivo, la polvere delle serpentine strette, i ghiacci eterni… quanto di me è rimasto là?

E quanto di tutto questo non sarebbe potuto esser vero senza compagni così straordinari come quelli con cui ho avuto l’onore di fare questo viaggio? La sincera generosità di Simone, sempre a disposizione e con un’energia ed una vitalità sempre pronte da regalare, che ha tenuto le fila di tutto: questo viaggio è riuscito ed è stato grandioso grazie a te. La vulcanica e simpaticissima Silvia, sempre disponibile anche a cose più grandi di lei. E un grazie di cuore a Simonetta: senza di te non ci sarebbe stato nulla; grazie per aver coltivato, pensato, studiato questo viaggio insieme, per tutti gli entusiasmi ed il sogno che ci hanno prima accompagnati e poi portati lontano, nel vento e nella neve dei desideri.

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