Vettenuvole

Reali fantasie di nuvole, montagne e altre amenità

Nuovo Mattino: tecnologia e spiritualità nell’alpinismo

Il nuovo autunno e le sue nebbie lasciano vagare la mente verso parole e visioni lontane dell’estate. Le camminate e le arrampicate appaiono soffici e quasi un po’ lontane, un ricordo ammorbidito dalla prime nuvole fresche della nuova stagione. Così si torna a vagare nelle riflessioni su pareti e passeggiate, e torna ispiratrice l’incredibile vena riflessiva e osservativa  di Gian Piero Motti. Un grande alpinista, colui che ne ha scritto la storia e, in parte, ne è stato artefice negli anni 70 con nuove visioni, innovatrici di mentalità e cultura.

È più che mai aperta tutt’oggi la continua polemica sull’approccio alla montagna: dallo sfruttamento intensivo delle industrie e del turismo di massa, al più minimale intervento dell’alpinista o escursionista che posiziona chiodi, corde, catene, traccia sentieri e li segnala.
Restando all’intervento dell’alpinista noto sempre più atteggiamenti assai radicali e inconciliabili. Da una parte una estrema difesa dell’ambiente montano, da mantenere incontaminato e privo di ogni traccia umana, quasi l’uomo non esistesse e ne fosse parte. Dall’altra un intervento talora banalizzante e aggressivo, che mira a portare infrastrutture e protezioni ovunque. La necessità di trovare un equilibrio tra le due visioni porta sovente a compromessi irrazionali e poco logici. Spuntano le vie spittate, ma con solo qualche spit ogni tanto, a volte in modo casuale. Poi ci sono le vie dove gli spit e addirittura le catene ci sono, ma solo sulle soste. Poi c’è chi ritiene che puoi salire ovunque, ma devi saper piantare solo chiodi, e guai a mettere gli spit. Infine ci sono i sostenitori dello spit a distanza ravvicinata e regolare ovunque.

È ormai chiaro che anni di evoluzione nelle tecniche e nei materiali ha portato un gran disorientamento nel mondo dell’alpinismo, ed anzichè un utilizzo consapevole di ciò che offre la tecnologia sembra invece prevalere un rifiuto o un peggio una fruizione distorta delle possibilità offerte.
In tutto ciò, occorre con rammarico constatare che raramente ci si ricorda di quel che già quaranta anni fa Gian Piero Motti preconizza, anticipando i tempi in modo visionario e brillante. Ma l’aspetto più interessante è che a Motti non interessa l’etica, sovente tanto cara quando si parla di salvaguardia della montagna, quanto piuttosto il modo di vivere la montagna. Non occorre rinunciare a qualcosa per andare in montagna, non occorre per forza arrivare in vetta, ed allo stesso tempo la montagna non è un tempio da rispettare, ma un parco gioco in cui, però, bisogna saper giocare. Non occorre per forza cercare il rischio, ma occorre la consapevolezza che è a volte impossibile annullarlo. Certo, l’idea di rinunciare alla fatica o alla vetta è qualcosa di poco intuitivo in una cultura cristiana e materiale come la nostra, invece è del tutto spontanea e naturale nelle filosofie orientali. In un certo senso Gian Piero Motti riesce a mettere l’uomo al centro della natura, senza tuttavia dover ridurre la natura (leggasi montagna) a semplice strumento della propria azione. Una simbiosi che muore dopo il Nuovo Mattino e non trova sbocchi, uccisa dalle mode imperative e consumistiche degli anni a seguire, dai dover fare, dai culti che privilegiano l’azione e il risultato all’estetica. Ma non vado oltre in questo discorso che rischia invece di diventare un ginepraio e che vuole invece solo essere un’introduzione ad alcune frasi tratte qua e là dal nostro alpinista troppo prematuramente scomparso. Sono frasi che continuano a far riflettere, e per le quali consiglio una più attenta lettura degli scritti lasciatici.

In relazione alla prima scalata del Grand Capucin, Motti riflette sul metodo impiegato dagli apritori, a come già il loro intervento non fosse privo di mezzi artificiali che lasciano un segno indelebile sulla montagna quanto non lo siano l’utilizzo in tempi recenti dei nuovi chiodi a espansione. “La scalata di Adolphe Rey fu dunque essenzialmente artificiale, sebbene i mezzi impiegati fossero piuttosto rudimentali, tanto che i primi salitori consigliarono gli eventuali ripetitori di «sostituire la pertica o con una scala di corda o con altra pertica più solida; quella da noi adoperata faceva parte della chiudenda di un prato e fu allegramente requisita dalle guide mentre salivano al rifugio».
Vien da sorridere pensando ai mezzi di cui dispone la tecnica moderna. La salita di Rey porta però anche a riflettere: in alcuni tratti assolutamente lisci, Adolphe fu costretto a forare la roccia con un lungo e paziente lavoro per piantarvi dei tondini di ferro in modo da assicurare la pertica (questi tondini sono ancora visibili e del tutto sicuri). Come si vede la storia dei chiodi ad espansione è piuttosto vecchia, e bisogna averla ben presente prima di accusare i giovani di dissacrazione dei valori etici dell’alpinismo.
” – Rivista della Montagna, 1-1972

Ma la critica di Motti non si ferma a questo. Nel proporre la scalata pulita in stile californiano ricorda come anche lo schiodare le pareti non è affatto un modo per pulire o lasciare intatta la montagna. “Recentemente una certa preoccupazione si è levata negli ambienti alpinistici californiani: il continuo lavoro di chiodatura e schiodatura attuato sulle vie più classiche e più celebri di Yosemite e l’uso costante dei chiodi al cromo-molibdeno, hanno deteriorato severamente lo stato di chiodabilità delle fessure, in alcuni casi rendendo quasi impossibile la progressione dove questa originariamente era piuttosto semplice. È dunque una realtà che mette in discussione tutta la regola dell’alpinismo californiano: o lasciare chiodati quei tratti di parete andando contro le regole vigenti o correre il rischio di dover piantare chiodi a espansione dove questo prima non era assolutamente necessario.” – Rivista della montagna, 4-1974

Risulta evidente che a Motti non interessa una negazione a priori delle nuove possibilità offerte dall’evoluzione tecnologica. Invece sposta la soluzione sul piano umano, sull’approccio alla montagna dal punto di vista motivazionale e esistenziale. Una constatazione  ce l’abbiamo nelle seguenti righe, che lette a sproposito invece possono proprio essere equivocate e banalizzate come un rifiuto dell’evoluzione. “La montagna è uno dei pochi posti dove vive ancora una poesia genuina, alimentata da una vaporosa ed eterea atmosfera di lucida e consapevole follia. Qui puoi ancora a volte incontrare un sorriso che non sia stato mortificato, uno sguardo luminoso e bruciante che ancora non sia stato spento. Ed è molto, se lo si paragona al viso di coloro che si agitano incatenati nei loro ruoli definiti nel colossale formicaio delle città industriali.[…] Con l’incremento dei mezzi tecnici si è creduto di progredire, ma in realtà non si è fatto che regredire sul piano umano. A poco a poco si è creata l’illusione di poter salire ovunque, si è creduto ingenuamente di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque, usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnica ci ha messo a disposizione. La stessa illusione amarissima la sta vivendo la società occidentale, la quale, credendo assai presuntuosamente di assoggettare la natura ai propri voleri, sta assistendo impotente alla distruzione del pianeta“. – Rivista Fila, 2-1976

Il problema quindi non è l’ausilio tecnico da applicare alla montagna, ma l’idea di sfruttamento, che sulle pareti si traduce in un assalto indiscriminato e forzato, volto ad un risultato da vantare e privo di ogni maturazione e apprezzamento finalizzati alla comprensione del mondo, appena visitato, della natura.  È questo invece che promuove il Nuovo Mattino. La vetta passa in secondo piano, i chiodi, gli spit, perfino la sicurezza e il rischio, conta solo l’umile e naturale disposizione nei confronti della natura, solo così questa rivela la sua anima gioiosa e divertente. Tutto il resto vien da sè. Ecco come ne parla Gian Piero in relazione al suo amico Gian Carlo Grassi. “Quando arrampico con lui mi pare di giocare come da bambini, mi sembra che tutta la faccenda non sia poi così seria come tanti la mettono giù. Quest’inverno abbiamo passato quasi due mesi a cercare massi erratici nei boschi, servendoci di una cartina trovata su di un vecchio libro, come pirati alla ricerca di tesori sepolti. Eravamo nei boschi di Avigliana, a venti chilometri o poco più da Torino. Eppure, lo giuro, l’avventura era totale, completa. Certo, si giocava. Ma per noi ogni masso scoperto era un universo intero, una galassia da esplorare, un deserto da conoscere.
Credetemi, il più delle volte l’avventura non è lontana, è lì sulla porta di casa, anzi – meglio – è in noi, a patto che si voglia tornare un po’ semplici, attraversando tutto l’oceano della complicazione umana.
” – Rivista Fila, 9-1979

 Per inciso, purtroppo molti di quei boschi e di quei massi oggi non esistono più, demoliti nel corso degli ultimi anni per lasciar posto a nuovi appartamenti.

In Arrampicare a Caprie (dicembre 1982), a pochi mesi dal suo ultimo viaggio, Gian Piero Motti pone esplicitamente fine alla riflessione di una vita e nel dare l’addio al Nuovo Mattino lascia una testimonianza più che mai attuale. “Il free-climbing, inteso non tanto nel senso di ‘arrampicata libera‘ ma in quello più ambizioso e filosofico di ‘libero arrampicare‘, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione. Ahimé… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo-muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri. Il Nuovo Mattino rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali. […] Bisognava far voltar le spalle ai giovani, staccarli dal masochismo”. E infine,  tornare alle montagne vere, con una nuova consapevolezza simbiotica con la montagna. Ecco un’ultima considerazione: “E nemmeno voglio passare per un amante del rischio, nemico di coloro che rendono sicuri i punti di fermata in palestra. Trovo idiota e senza senso rischiare su dei chiodi a pressione mal piantati: se serve un chiodo a pressione o uno spit, lo si pianti a dovere in modo che dia tutte le garanzie di sicurezza[…]. Ma il mio discorso è più sottile e chi lo ha voluto capire lo ha capito: è l’estensione di questa mentalità che mi preoccupa, perchè porta l’arrampicatore ad una sorta di illusione, ponendolo poi in situazioni fortemente critiche quando si verrà a trovare di fronte a vie schiodate (non sempre i nut possono sostituire un chiodo), all’eventualità di dover attrezzare un punto di fermata difficile o peggio un punto di calata in corda doppia, al cui ancoraggio affidiamo tutta la nostra esistenza, ottavogradisti o terzogradisti che si sia. A volte cercare troppo la sicurezza può portare proprio al risultato contrario: l’intento è in buona fede, ma alla fin fine produce l’effetto negativo di illudere disabituando al pericolo, che in montagna, non dimentichiamolo, esiste sempre.

Grazie a queste riflessioni oggi, quando vado in montagna, cerco di rispettare ogni punto di vista. Apprezzo moltissimo le palestre di bassa valle. Le poche volte che vado su vie classiche non mi dispiace mai quando incontro uno spit nel posto giusto, ma ricordo che occorre anche saper usare le proprie protezioni e sapersela cavare. Non cerco la fatica, la velocità e le levatacce, anche se a volte non se ne può proprio fare a meno. Ma, soprattuto, apprezzo la natura in ogni sua forma, apprezzo le sensazioni che regala, a 4000m come a 400, e son felice quando porto a casa una bella esperienza, non per forza da raccontare, ma da ricordare.

Biografia essenziale sul Nuovo Mattino tra articoli e guide –
Gian Piero Motti  – I falliti e altri scritti – Vivalda Editori
Gian Carlo Grassi – 100 ascensioni e traversate nel Gran Paradiso e Valli di Lanzo – Zanichelli
Ugo Manera – Pan e Pera – Vivalda Editori
Maurizio Oviglia – Rock Paradise – Versante Sud

2 thoughts on “Nuovo Mattino: tecnologia e spiritualità nell’alpinismo

  1. ciao Marco,
    me l’ero perso questo post…davvero interessante e piacevole da leggere.
    trovo molto ragionevole la tua riflessione a differenza di discorsi dei tanti che sfornano sentenze su etiche e integralismi vari.
    Poi è ovvio che non si può generalizzare, se su certe classiche un fix messo al posto di un vecchio chiodo inaffidabile è qualcosa di tollerabile o anche auspicabile, su altre vie è impensabile. Mi viene per esempio in mente, per quel che riguarda le alpi centrali, la Val di Mello. Su certi tiri mettere un fix significa snaturare completamente il senso della via, annullarne il significato storico e tecnico e la dimensione dell’avventura nel ripetere la via.
    Per fortuna in alpinismo ognuno è ancora libero di fare quello gli pare. Certo farsi guidare da senso critico, rispetto e conoscenza della storia, comprensione del presente, è molto meglio

    ciao,
    claus_

Commenti

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